Il Confine di Contatto

Il confine di contatto, è l’organo della consapevolezza e della definizione dell’identità, dato che permette di delineare i propri limiti, in contrapposizione a tutto ciò che non ci appartiene.

Il sé, scritto minuscolo è un “organo” della persona, uno strumento che ha insita la capacità di regolare l’organismo che risiede, e di risolvere i suoi problemi per mezzo della sua caratteristica principale, che è quella di essere un “processo permanente di adattamento creativo” nel proprio ambiente, interiore ed esteriore, come definito anche da Goodman: attraverso la vista, l’udito, l’odorato, il tatto e il movimento, entra in contatto con gli altri e con l’ambiente e integra quello che è stato assimilato nel proprio senso di individualità.

Individuo-ambiente, esperienza interna-esterna, sè-altro, soggetto-oggetto sono indivisibili, in quanto parte del campo totale, al confine del contatto IO(Organismo) TU (ambiente). Equilibrio-squilibrio, contatto-ritiro, creazione e distruzione come un processo, un ciclo continuo in movimento dove l’individuo soddisfa i propri bisogni e apprende la capacità di distinzione.

Il confine di contatto, è dunque l’organo deputato alla costruzione di tutta la personalità, alla rappresentazione di sé stesso, che si sviluppa in un ambiente specifico, ed è anche il risultato della nostra capacità creativa di adattamento, diventa lo strumento di relazione, attraverso il quale, impariamo a conformarci all’ambiente, senza dover rinunciare alla realizzazione dei nostri desideri.

E’ alla frontiera/contatto dell’organismo (dove per frontiera si intende il filtro che blocca e seleziona ciò che proviene dall’esterno e dall’interno, e per contatto il meccanismo che consente e facilita invece il suo passaggio) che si evidenziano tutte le modalità e i meccanismi di funzionamento del sé.


Il processo psicologico di assimilazione è molto simile a quello fisiologico.


È impossibile pensare che l’individuo possa respingere qualsiasi “cibo psicologico” proveniente dall’esterno perché è inverosimile nutrirsi di se stessi, sia emotivamente quanto fisicamente, l’ideale sarebbe che il “cibo psicologico” presentatoci dal mondo fosse destrutturato, sminuzzato, digerito, analizzato e poi rimesso insieme nella forma di maggior valore per noi.

Il cibo che mangiamo, non lo inghiottiamo intero, lo mastichiamo destrutturandolo, lo digeriamo modificandolo in particelle chimiche che il corpo può utilizzare, una volta digerito e assimilato adeguatamente diventa parte di noi e viene convertito in ossa e muscoli.

Se diversamente il cibo lo ingoiamo intero, lo buttiamo giù non perché lo desideriamo ma perché “dobbiamo” mangiarlo, questo peserà sullo stomaco, ci farà sentire fastidio e ci procurerà il senso di vomito. Se noi reprimiamo il nostro fastidio, la nostra nausea, il nostro desiderio di sbarazzarcene, succede che o lo digeriamo dolorosamente oppure ci avvelenerà.

La società e la cultura in cui nasciamo hanno un effetto potente su di noi. Ogni individuo, oltre alla percezione che ha di se stesso, ai propri giudizi personali, ottenuti durante le varie esperienze del processo di crescita e al conseguente sviluppo delle proprie consapevolezze, rispetto al contatto con il “sé organismico” (chiamato così all’interno della teoria rogersiana), integra valori e giudizi esterni che provengono, sin da quando si è bambini, dalle figure più significative (genitori, insegnanti, parenti, compagni ecc..).

Quando questi giudizi-valori non vengono integrati nel proprio sé, entrando in contrasto con quelli che sono i propri bisogni e le proprie capacità di ascoltare profondamente il proprio “sé organismico”, creano nell’individuo una discrepanza, da Rogers (1957, 1983) chiamata incongruenza, che genera nella persona uno stato di dolore e disorientamento, quando perde il contatto con il proprio centro di valutazione interiore.